dal Corriere della Sera del 21.9.2012


QUANDO I FILOSOFI SI CONFRONTANO CON LO SCETTICISMO

 

di Gianni Vattimo

Caro direttore, i «nuovi» realisti, a cui Emanuele Severino («la Lettura», 16 settembre) fa l'immeritata gentilezza di prenderli sul serio, saranno «in sé» o «fuori di sé»? Essi (Maurizio Ferraris, «Repubblica», 17 settembre) lo ricambiano facendo dire al povero Kant che i fenomeni, per essere tali, devono avere dietro delle «cose in sé» (ogni fenomeno la sua cosa; multe, colapasta, sciacquoni, ecc); e siccome questo è impossibile (lo era soprattutto per Kant, che non avrebbe mai parlato di cose in sé al plurale), multe, colapasta e sciacquoni non sono fenomeni, ma essi stessi cose in sé. Ma a parte l'imprudenza di dialogare con simili interlocutori, Severino argomenta anche in modo serio; serio e anzi eterno, perché le sue ragioni sono sempre le stesse (del resto lui non se ne preoccupa: «Ogni cosa è un essere eterno», dunque anche il suo discorso sull'incontrovertibile). Due i punti essenziali dell'articolo.
a) Gentile. Come i suoi maestri neoscolastici dell'Università Cattolica, Severino riconduce tutto a Gentile e al suo idealismo estremo e soggettivistico. Sono loro che gli hanno insegnato a preferire Gentile a Croce: più facilmente riducibile ad absurdum: tutto sarebbe nelle mani dell'uomo empirico, io lui loro; soggettivismo, nichilismo, ecc. Se questo è l'esito del pensiero moderno, è chiaro che bisogna tornare agli antichi e agli eterni: Parmenide, alla faccia di ogni esperienza vissuta di storicità, libertà, cambiamento.
b) L'incontrovertibile. Se io, con Nietzsche (e Gadamer e Heidegger; ma anche Marx critico dell'ideologia), dico che non ci sono fatti ma solo interpretazioni, e anche questo è un'interpretazione, Severino sostiene che anch'io (e i sunnominati) pretendo di fare una affermazione metafisica e incontrovertibile. E perché? Lo dico, qui, ora, leggendo così la mia condizione ed eredità storica. La leggo così e non altrimenti. Ah, ecco, il principio di non contraddizione da cui dovrebbe discendere la verità incontrovertibile dell'eternismo severiniano. Che poi questo vada a braccetto con il «realismo» dei banalizzatori di Kant con cui egli dialoga può solo far da tema a un racconto patafisico. Oltre alla confutazione del pensiero moderno identificato con Gentile, il discorso di Severino (qui e sempre) si riduce tutto al vecchio argomento antiscettico: se dici che tutto è falso, pretendi che la tua tesi sia vera. Dunque... Ma c'è mai stato uno scettico che si sia «convertito» sulla base di questo giochetto logico-metafisico?